Contro la violenza

Sono tornato alla terra. È lì che si torna,  perché è da lì che veniamo. Quando non siamo niente, quando siamo solo pensieri, quando ancora siamo nel luogo non luogo… in quell’istante siamo nella terra. 

Questa terra bruna e soffice, questa madre, non si sa dove sia.

Poi… basta un attimo… un seme volato al vento, gettato per caso, una mano intenta e consapevole, una scelta minuziosa e diligente, un gesto, un seme nella terra e via,  si comincia. 

Inizia la giostra, inizia la vita.

Il freddo della terra spaventa, la solitudine iniziale, il silenzio: poi arriva il resto.

 Alle volte si presentano i lombrichi o qualche roditore con l’unico, ma naturale intento di mangiarci. 

A volte il seme si ferma solo in superficie e un uccello vorace lo prende e lo porta per sempre con se’: la terra non ce la fa a proteggerlo…e, in un attimo,  lui non c’è più.

Se la vita si attacca, però, il seme comincia a combattere. Apre il suolo, si allarga, affonda le radici, si muove.

 Succede anche a noi. A volte veniamo al mondo per caso, a volte per scelta, a volte per amore.

Nei primi casi, quando si accorgono di noi, può arrivare il panico. Con  i primi ripensamenti  si realizza che quel gesto fatto, un po’ per caso, un po’ per voglia, un po’ per essere come gli altri, prevedeva la vita …e la vita è arrivata. 

Che fare, allora? Rivelare agli altri il proprio segreto, prenderne la responsabilità, tacere tutto  e mettere fine alla vita che, in fondo, ancora  non c’è?

La terra da sola non può mettere fine a niente, può solo dare la vita. Le madri si. 

Possono decidere se dare la vita o toglierla…un fardello che pesa non poco.

Se si pensa alla vita, si dovrebbe pensare che, quando comincia, comincia col cuore, non con il cervello. È lui a funzionare per primo. È il l cuore a battere, è il cuore che dice buongiorno alla vita.

Dovrebbe dirci tutto, questo. Dovrebbe dirci che la vita comincia da quel battito e in quel battito continua per sempre anche se, poi, i nostri giorni sono confusi dai rumori di fondo, dalle azioni quotidiane, dai doveri che coprono lentamente il nostro cuore e il suo scopo: amare.

Lo sperimentiamo nei primi istanti della nostra vita e durante tutta la nostra infanzia. In quel periodo ideale cerchiamo carezze, sorrisi, abbracci…solo amore.

Lo sappiamo fino a quando cominciano ad inculcare in noi la favola  che il tempo è denaro, che non c’è da perder tempo, che c’è da fare e noi ci crediamo e ci lasciamo sovrastare da tutte le nostre angosce e preoccupazioni quotidiane.

Forse la colpa è di Pandora e del suo vaso  con tutte le sue disgrazie.

 Ma non doveva contenere anche la speranza? Dov’è finita questa essenza meravigliosa? Dov’ è andato questo motore che può cambiare le cose? 

Sono tornato alla terra, perché la terra è la madre. Lo dicono gli alberi con le loro radici ancorate, che cercano un abbraccio profondo, lo dicono i semi che si accoccolano nel suo ventre e  dimorano sicuri fino alla nascita, protetti.

Le madri sono così forti come la terra?  A volte penso di si.

 Altrimenti perché dar loro il dono della vita? Perchè incoronarle con questa immensa responsabilità se non fossero capaci di gestirla?

Loro spesso pensano di no, si sentono sovrastate. Si sentono responsabili in ogni fibra del loro essere dal primo giorno in cui sentono quel cuore cominciare a pulsare. Diventa un tutt’uno con il loro, non riescono a coglierne la differenza e gestire due cuori diventa un’impresa felice ma dura. Niente può essere più lo stesso. Niente sarà come prima. 

La vita sarà in tutti quelli che si vedono e tutti quelli che la circondano diventano vita.Da rivedere!!!

Non tutte le madri sono uguali, ci sono quelle canguro, ghepardo, orsacchiotto, terrorizzate, ipocondriache, maniache, leggere.

Non tutte maneggiano quel battito allo stesso modo, non tutte riescono a tenerlo vivo fino in fondo.

 E’ una questione che riguarda le loro vite, a volte facili, a volte complesse, a volte impossibili. 

Eppure, anche nelle vite impossibili, anche a volte al di là di tutti i tentativi diretti e indiretti che si possano fare per far smettere al nostro nuovo cuore di battere, lui sopravvive a tutto e alla fine esce allo scoperto. 

Io venni al mondo per scelta, ma di quella scelta credo si pentirono tutti presto o almeno quando cominciarono a litigare. Il mio arrivo doveva essere carico di felicità, purtroppo, però  scoperchiò quel senso esistente di  angoscia e di dolore. Tutto cominciò a scricchiolare. 

Mio padre consegnò la mia nascita a mia madre e piano piano, solitudine dopo solitudine, lei cominciò ad andare in pezzi. 

Non potevo capire allora ma sentire si. Il suo stomaco che si apriva, il vuoto dentro, l’assenza di felicità, le lacrime che arrivavano per le richieste d’aiuto disattese e le offese, il suo corpo che spesso tremava dalla paura di non farcela.

Non potevo capire, ma sentire si, allora a volte piangevo, mi svegliavo la notte. Questo, però, la rendeva solo ancora più vulnerabile.

Quella fragilità se la portò dentro per molti anni; alle volte  sembrava davvero convinta di essere solo un vaso di vetro, trasparente e pronto a rompersi alla prima occasione. Alle volte anche io la vedevo così. Avevo il terrore che cadesse e, in un baleno, si frantumasse al suolo in mille pezzi e io, allora, sarei stato perso per sempre. 

C’erano però altri momenti  in cui mi sembrava forte, coraggiosa, immensa, l’avrei paragonata a Dio.

Un Dio che lotta contro l’uomo senza cuore, un Dio, che per qualche ragione a me sconosciuta, riesce ad amarlo. 

L’uomo senza cuore non era mio padre. lui se n’era andato anni prima, dopo furibondi litigi durati anni. In quei momenti avrei voluto non essere nato, avrei pagato per essere da qualche altra parte, avrei voluto che lui andasse via. Quando se ne andò davvero sentii come un vuoto allargarsi dentro, non so se fosse la mancanza o la liberazione. 

Non passò molto tempo prima che arrivasse l’uomo senza cuore, il suo corpo piccino, la sua faccia cattiva.

Avevo visto subito che nei suoi occhi si nascondeva qualcosa di oscuro, come quella luce che hanno i cattivi nei film o nei fumetti, ma non avevo detto niente. Del resto il parere di un bambino non interessava a nessuno in quella circostanza, non aveva nessuna importanza.

Mia madre l’aveva conosciuto ad una fiera, dove faceva l’ambulante; l’aveva invitata a ballare e lei, dopo anni di attenzioni mancate, era cascata nella rete del primo cavaliere senza macchia. Peccato che non fosse così gentile, in realtà… soprattutto con noi. Io e mia sorella speravamo che questa storia finisse presto, invece alla fine ci trasferimmo tutti insieme a vivere con lui.

La casa era piccola, avevamo una cucina con un vecchio divano, la camera da letto , la nostra camerina e il bagno. Ci tenne subito a precisare che dovevamo stare attenti a tutto, a non sporcare, a non rompere niente, a non far rumore e poi, questo concetto, lo ribadì sempre sia con le urla che con le botte. All’inizio cominciò con noi. Un segno sul muro, qualche risata di troppo, qualche urlo di gioia, tutto poteva essere l’inizio della fine. I primi tempi lo faceva soprattutto quando lei non c’era e guai a dirle cosa fosse successo, il terrore di quello che sarebbe potuto accadere incombeva su di noi. 

Non so se lei fosse felice, forse all’inizio lo era. Alle volte, quando le cose andavano bene, la sentivo cantare: l’adoravo quando cantava, portava una ventata di normalità alla nostra casa che era cosi rara negli ultimi tempi.

Quando le vedevo gli occhi cerchiati e gonfi, invece, anche se cercava di sorridere, sapevo che aveva pianto. A volte lo faceva tutta la notte, perchè l’ oscurità nascondeva lo scendere delle lacrime, ma il volto rimaneva segnato e, nonostante il silenzio  e la notte, sapevo che aveva pianto. Quelle lacrime erano una ferita nel mio piccolo cuore e costruivano barriere forti contro colui che gliele causava.  

Anche i lividi erano difficili da nascondere. Anche se cercava di coprirsi quando lui glieli faceva, io ero sempre attento a notare il minimo spostamento dei suoi vestiti per cogliere il segno dei loro litigi.  Non riuscivo a capire cosa ci avesse trovato in lui, così magro, occhi piccoli e cattivi, vita allo sbando. Forse La tenerezza dei primi giorni, l’essere stata l’oggetto delle sue attenzioni, non l’ho mai capito. Era finito tutto presto, però, e subito erano arrivati i litigi, le offese e piano piano anche le botte. La nostra vita era un terno a lotto, sempre ad attendere i suoi cambiamenti di umore .

Da quando l’avevo visto per la prima volta, l’avevo soprannominato l’uomo senza cuore.  Lo vedevo come in un fumetto, magro, smilzo, viso bianco, barbetta, occhi cupi. Una volta avevo perfino sognato di averlo picchiato. In ospedale poi, finalmente, avevano confermato la mia tesi. “È un uomo senza cuore” aveva detto il tecnico delle radiografie ed io, sollevato, avevo  finalmente capito perché si era comportato così. 

Quella storia del cuore la ripetevo spesso. Tutte le volte che faceva qualcosa di terribile e che non riuscivo a spiegarmi mi dicevo: “L’ha nascosto da qualche parte, devi andare a cercarlo altrimenti lo rifarà ancora”.

 Chi si comporta così non può avere un cuore, deve averlo perso per forza da qualche parte, o forse non l’ha mai avuto. Difficile vivere senza cuore, impossibile  quella  di chi ti sta intorno. Da rivedere!!!

Noi vivevamo  come se camminassimo su una strada lastricata di vetri e, ad ogni passo falso, rischiavamo di tagliarci. A casa nostra il dolore era un compagno onnipresente. Era come una spada che si insinua dentro, profonda. Con la sua punta incideva  il  nostro corpo provocando nuove ferite e riaprendo  vecchie cicatrici. 

Il dolore arrivava  improvviso, non visto, mai benvenuto. Insieme a lui conviva la paura che

riapriva gli occhi la notte, fermava il respiro, accelerava il cuore. Il dolore era terribile e misterioso perché non sapevo dove potesse condurmi. 

Questi erano i miei giorni. Aspettare con ansia e paura il prossimo scatto d’ira, le prossime botte, i lividi, il prossimo salto dal trampolino dove mi trovavo a camminare.

Il dolore e la paura mi erano cresciuti dentro, si erano aggiunti agli anni sulle candeline del mio compleanno. 

Di questo dolore non ne facevo parola con nessuno. A cosa sarebbe servito? Quello era il mondo in cui a tutti mancava un pezzo di qualcosa.

Alle mie maestre mancavano gli occhi, mi ero detto. Doveva essere così, non poteva essere altrimenti. Quelli che vedevo erano solo disegnati, altrimenti come avrebbero potuto non vedere?

Ebbi la conferma quando una volta mia sorella arrivò a scuola con l’orecchio viola, tumefatto, piegato. Lui gliel’aveva chiuso nella porta…per punizione.

 Stavolta lo vedranno, mi dissi, stavolta noteranno qualcosa e lo diranno a qualcuno…. Niente. Gli occhi non funzionarono neanche stavolta, come avevano fatto tante volte con me. 

I grandi non avevano occhi, orecchie, braccia, mi sembravano uno sciame d’api che mi passava accanto di fretta, senza mai accorgersi di me.

Eppure, anche le urla a casa nostra si facevano sentire. Ma al di là della parete c’erano i vicini senza orecchie…..cosa potevo pretendere io!

C’erano i miei amici, pochi, perché non mi lasciavano uscire spesso. Con loro ero io che non riuscivo a parlare. Dire di quel dolore per me era  come staccare un pezzo di pelle da svegli, scavarsi il cuore. A quel punto la pelle, all’aria, brucia e attende.

 Chi ascolta il dolore, spesso non merita questo canto misterioso. Ne ignora la potenza, il sacrificio di chi lo narra, dopo averlo subito insieme ai suoi lividi in ogni angolo del corpo. Spesso lo ascolta distratto non sapendo i segni che ha lasciato o lo giudica innocuo o passeggero, non accorgendosi dei suoi ritorni e delle sue lame affilate.

Spesso chi ascolta si tiene lontano, tanto non è affar suo. A volte ride del dolore. Ma ridere del dolore è come provocarlo. È come alzare la mano per impugnare la spada. Quella del dolore.

In tanti momenti avrei desiderato essere di gomma. Sarebbe stato  meglio. Di gomma, per non sentire il disprezzo, il dolore delle botte, i brividi della paura. Ma di gomma non ero, e fatto di pelle, ossa e cuore soffrivo di quello che mi stava accadendo.

Sono tornato alla terra, non per scelta, non per nascondermi, perchè non ce l’ho fatta. Il mio cuore bambino, dava noia, fastidio. Fastidio le mie risate, la mia voglia di divertimento, di gioco. Il mio disordine che era ribaltare l’ordine inutile e falso della vita. Disturbava tutto e quindi valeva la pena picchiarmi, picchiarmi fino a farmi morire.

Quel giorno l’uomo senza cuore non riusciva a dormire. Era nervoso, come sempre, e i nostri giochi lo mandavano in bestia. Non ricordo esattamente perché, ma afferrò quella scopa e cominciò a picchiarmela dappertutto. Ricordo che avevo riso con mia sorella di una barzelletta scritta sul mio diario, poi non ricordo quasi niente. Quel giorno mi sentii come avevo immaginato mia madre. Ero un vaso di vetro che stava andando in frantumi. Piangevo, urlavo di smettere, mettevo le mani avanti per proteggermi dai quei colpi….ma niente. Lui ne sferrava ancora, non era solo senza cuore, era senza orecchi, senza occhi, era il mondo adulto ad essere così. L’unica che mi guardava e piangeva era mia sorella, ma anche lei era piena di lividi e prendeva calci e pugni in qua e in là quando faceva pausa con me.

Poi arrivò finalmente mia madre, l’unica che faceva eccezione. L’unica che provava a sentire, vedere, reagire, anche se spesso era sovrastata dalla paura. 

Lei cercò di farlo smettere e si prese i suoi morsi, i suoi pugni, le offese di sempre. Poi fu il mio cuore ad andarsene ed io divenni come tutti gli adulti: senza occhi, senza mani, senza niente. Si dice, però, che quando il cuore smette di battere, il cervello per tre minuiti funzioni ancora. Fu così anche per me: in quegli istanti vidi l’uomo senza cuore, con le mani stanche per avermi picchiato fino ad uccidermi e le lacrime di mia madre, inerme, terrorizzata, fragile. Vidi la mia vita proiettata davanti e la mia morte attaccata al suo cuore per sempre, con la voglia di uccidere il mio assassino, con il corpo bloccato dalla paura e dall’incredulità e poi, improvvisamente non vidi più nulla.

Viene sempre mia madre in questa terra, dove ora riposo, versa sempre le sua lacrime come linfa per la mia vita, mi accarezza.

Quando la vedo ora, a volte non la riconosco perché è cambiata, ma va bene così. 

Dopo la mia morte, mia madre si ruppe. Le tolsero tutto, l’accusarono a causa mia e gli adulti senza occhi, nè orecchi, nè mani cominciarono ad usare parole, gesti, accuse contro di lei. Piano piano, adesso i pezzi stanno tornando insieme, sta imparato a lottare per chi è rimasto, a schivare le botte, ad allontanarle perchè ha capito che la vita non deve passare da li. 

Per tutto questo, però, abbiamo pagato un caro prezzo, troppo caro, troppo grande.  Tutto questo, però, poteva essere evitato molto prima. 

Quando ero a scuola avevo letto sul libro di religione che alcuni credono che ci tocchi anche una seconda vita. È bello immaginare che sia così. Io però nella mia seconda vita non voglio ritornare umano, non ho avuto una bella esperienza con questo genere che per me di umano non ha niente. Vorrei diventare una lucciola. Ne ho viste diverse da quando sono qui. Mi illuminano tante notti. Sono esseri piccoli, apparentemente indifesi eppure possono fare in sciame una grande luce. Illuminerei gli adulti, andrei a trovarli nelle loro case e per strada. Farei lume sui loro occhi, orecchi, braccia. Direi loro: non vedete cosa succede? E se lo vedete fermatelo, vi prego, cosi, se ci fosse stata quella luce forse non sarei tornato alla terra come nessuno ingiustamente e per mano di qualcun altro dovrebbe fare. 

Maria

Violenza e Buddismo

Dogen Zenji, l’ispiratore di quella tradizione che oggi chiamiamo Buddismo Zen Soto, afferma in un suo testo, Shoji- Vita e morte: “Per divenire Buddha c’è una via molto semplice: non costruire le varie forme del male, non avere il cuore che si attacca a vita e morte, approfon­disci la compassione verso tutti gli esseri viventi, rispetta chi sta sopra, senti compassione verso chi sta sotto, abbi un cuore che non detesta nessuna di tutte le cose, un cuore che non brama, senza pensieri reconditi, senza risentimenti: questo è ciò che chiamiamo Buddha”. E’ un comportamento puntuale e proiettato nel tempo: puntuale, perché si tratta di operare (pensare, parlare, agire) volta per volta, situazione per situazione. Qui non c’è possibilità di verifica: ridicolo è chi si autoproclama o accetta di farsi proclamare “illuminato”, specie se con questo intende che lui (o lei) è così giunto alla fine del compito; l’unica verifica possibile è quella dell’errore, della propria insufficienza, della devianza, seguita dalla riconversione, dal ritornare sulla Via da cui in quel momento si è deviato. Proiettato nel tempo perché è un lavoro che non ha fine così come non ha avuto inizio: temporalmente coincide con la durata del tempo, cioè è senza inizio né fine, perché un prima e un dopo il tempo non sono temporalmente definibili. Qui tutto si verifica, perché tutto va nella direzione di Buddha: questa è la sede della fede, se vogliamo usare questo termine. Qui tutto si rigenera e non c’è nulla di definitivo. I due aspetti, puntualità ed estensione non sono si escludono l’un l’altro: come due facce di un’unica medaglia: non se ne può vedere che una per volta, ma senza l’una l’altra non c’è.

Nel piccolo mondo del buddismo storicizzato, la violenza ha fatto non poche volte la sua comparsa: non credo sia questa la sede per fare un’analisi storica. Voglio solo notare una cosa, che può servire per evitare (o almeno rendere meno drammatici) futuri errori. Quanto più il buddismo (e direi ogni religione in genere) si lega a istituzioni politiche e sociali, tanto più si troverà, presto o tardi a dover usare il dettato religioso come un alibi per i propri comportamenti. Se il buddismo si lega a uno “stato” (quale che sia l’accezione in cui utilizziamo il termine) prima o poi quello stato lo condizionerà. E si troverà costretto a usare gli strumenti che ha a disposizione (la dottrina religiosa) per difendere lo stato cui si è legato. Così successe nel secolo scorso in Manciuria e in Cina quando i religiosi buddisti di ogni tradizione, Zen compreso, appoggiarono l’imperialismo militarista del governo giapponese di allora, manipolando in modo criminalmente strumentale certe affermazioni di certi testi buddisti, sfruttandone a fini irreligiosi l’ambiguità. Qui il termine ambiguità non ha alcun connotato negativo, sta solo a indicare la non univocità di significato di molte affermazioni religiose, che prendono senso se inserite in un contesto vivo.

Nel piccolissimo mondo del buddismo Zen nostrano, sembra che la violenza faccia a volte capolino nei rapporti interpersonali, e segnatamente in quel rapporto così vilipeso che si usa chiamare “maestro-discepolo”, o più generalmente “inferiore-superiore”. L’argomento non è trattabile neppure in forma succinta in questa sede, tanto delicato essendo e tanto profondo il fraintendimento che lo accompagna. Ma per il nostro tema va detto che ogni forma di sopraffazione, di dipendenza psicologica, di sfruttamento della posizione che si manifesti all’ombra del rapporto maestro-discepolo costituisce una forma di violenza basata su di un alibi privo di alcun fondamento buddhista. Qui va sottolineato il fatto che i rapporti umani sono sempre intrisi di connotazioni culturali, linguistiche, etniche (mi si passi il termine, scevro da ogni sfumatura razzista). Noi (buddisti zen) abbiamo imparato osservando rapporti umani che si sono sviluppati e hanno preso forma stabile nell’ambito della cultura cino-giapponese, utilizzando quel linguaggio, partendo da caratteristiche caratteriali proprie di quei popoli. In particolare, il rapporto inferiore/superiore, cardine della cultura confuciana, ha influenzato fin nel midollo la società giapponese, anche nei suoi aspetti religiosi, ivi comprese le modalità di rapporto all’interno dei monasteri buddisti zen, sia Rinzai che Soto. Attribuire tali modalità a matrici buddiste è un errore storico, culturale e religioso.

Abbiamo prima accennato al fatto che la responsabilità individuale consta nel buddismo nell’impegno di ciascuno a convertire se stesso, alias il mondo. Vediamo di chiarire meglio questo punto. La responsabilità individuale è la croce e la delizia di ogni buddhista. Forse non sarebbe improprio asserire che è croce e delizia di ogni essere umano, ma teniamoci al titolo su cui riflettiamo. Nel buddismo non si accenna al Creatore, non si nomina la Provvidenza, non si proietta una visione escatologica che promette una Salvezza Comune. La salvezza è faccenda di ognuno (di ogni uno): il senso di “universale” nel buddismo va compreso a partire da questo punto di partenza. “Universale” vuol dire che ogni essere è un universo, è l’universo, e che ognuno che si salva, salva l’universo intero: così Sakyamuni Buddha afferma che tutto diviene Buddha insieme a Lui. Vice versa, siccome il mondo di uno contiene tutto il mondo, così è per ciascuno: il compimento della mia salvezza implica di necessità la tua salvezza, perché così come tu sei un “tu” dentro il mio mondo, io sono per te un “tu” dentro il tuo mondo, del quale tu sei l’io. A partire da me (e altro punto di partenza non c’è) l’universalità si estrinseca in unicità e reciprocità: coprendo così tutto il tempo (tutti i tempi) e tutto lo spazio (tutti gli spazi).

Nella visione buddhista, la realtà e quello che noi in termini occidentali moderni chiamiamo responsabilità individuale coincidono. Secondo la legge della produzione reciprocamente condizionata di tutti i fenomeni, quello che sono, ora come sono, è il terminale di tutto ciò che concorre a far sì che sia così: devo assumermi la responsabilità di quello che sono. La parola ha qui il suo pieno significato etimologico: io sono nel modo in cui “rispondo” (sono respons-abile – capace di rispondere) alla realtà che mi costituisce e mi circonda. Questo è l’unico atteggiamento adulto che mi offre gli strumenti per uscire dall’impasse. Finché recrimino, cerco responsabilità “esterne”, me la prendo con la sorte, non mi ritroverò mai in quel punto che sintetizzerei con l’espressione “solo io sono io”. Questo è lo statuto costitutivo del buddhismo “Siate luce a voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro” (Mahaparinibbanasuttanta, 2,33; Digha Nikaya, 16).

Per quanto riguarda il nostro tema, ciò equivale a dire “sono lo schiavo di me stesso”: questa è la croce che devo portare. Devo, in un certo senso, considerare come “mie scelte” anche le cose che mi capitano senza che io le abbia intenzionalmente e consapevolmente scelte. Se quindi, per fare un esempio, ricevo un ordine, nel momento in cui lo eseguo non è perché l’ho ricevuto, ma perché ho deciso di eseguirlo; e se vivo in una realtà in cui gli ordini si eseguono in quanto ordini, senza discriminare, sono io che accettando quei valori li faccio miei: non potrò dunque mai dire legittimamente “l’ho fatto perché me l’ha detto lui”. Il rovescio della medaglia è che chi dà ordini è individualmente responsabile degli ordini dati e degli effetti della loro esecuzione. Una delle cose più importanti in religione è non cercare mai alibi, men che meno negli insegnamenti religiosi stessi. Non c’è nulla dietro cui nascondersi, né istituzioni, né tonache, né dottrine: ognuno è responsabile di sé.   

 Ma se davvero realizzo che solo di me sono schiavo, che non c’è nulla e nessuno che mi tiene prigioniero, io posso anche essere il liberatore di me stesso. E questa è la delizia che quella croce nasconde: solo là dove verifico che tutte le catene che mi legano sono roba mia, c’è la possibilità di comprendere che solo io me ne posso liberare. Compresa la vera natura della legge di causa/effetto, del karma, del destino, posso vedere la natura delle catene che mi legano. E, vistala, comportarmi di conseguenza. Questo è ciò che in termini zen si chiama satori: assumersi la responsabilità della propria vita, vedere che volta per volta, momento per momento ho tutta la libertà che la situazione offre, e impegnarmi a comportarmi così per tutto il tempo della mia vita. Il parametro di questo comportamento per il buddismo zen è lo zazen, che consiste nel fare niente, nel solo stare seduti vigili e immoti. Fare niente è l’opzione possibile in qualsiasi situazione, il germe della libertà. Il seme della libertà è dato a tutti gratuitamente: citiamo ancora Dogen Zenji: “A chiunque sin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha. (Bendowa – Il cammino religioso).

Se qui Dogen si riferisce specificatamente allo zazen, parametro della pratica religiosa, noi possiamo certo parafrasare come segue: a chiunque fin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non lo mette in atto in ogni comportamento, in ogni situazione della vita, quel principio non appare manifesto: e siccome la manifestazione non è altro dal principio che la informa, se non si evidenzia in realtà non sussiste. Ecco dove sta la responsabilità individuale.

Per quanto riguarda dunque il problema della violenza, si tratta di educarsi, con la pratica, con lo studio, con le frequentazioni, a discernere il comportamento adatto volta per volta. Io non posso a priori escludere che ciò possa voler dire, in un caso estremo, uccidere il tiranno, come cercò di fare Bonhofer ai tempi di Hitler. Sapendo però che uccidere è un atto violento, che comporterà conseguenze di cui mi devo far carico: se mi daranno l’ergastolo, se mi condanneranno a morte per questo, se altri soffriranno per il mio gesto, tutto questo ricadrà su di me e io devo essere pronto a pagare fino in fondo, senza recriminare: cercando là dove le conseguenze del mio gesto mi porteranno, la pratica e la testimonianza della Via.

Credo si possa dire, insomma, che il buddismo non ha una risposta al problema della violenza e della responsabilità individuale in presenza di quella: il buddismo non elabora teorie e non fornisce formule risolutorie: è piuttosto l’indicazione di un cammino, di un orientamento a cui sempre è possibile tornare tutte le volte che ci si accorge di aver deviato. Decidere come comportarsi di fronte alla violenza (sia essa dentro o fuori di me), questa è la mia responsabilità individuale volta per volta. Essere riuscito ieri non è garanzia che riuscirò domani: la vigilanza deve essere continua. La mia responsabilità individuale riposa però su una fede che la sostiene e la indirizza: da qualunque deviazione posso sempre tornare, perché qui dove sono, in un punto sperduto di un cammino infinito, è anche contemporaneamente il punto di inizio e la meta.  

 

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