Violenza e Buddismo

Dogen Zenji, l’ispiratore di quella tradizione che oggi chiamiamo Buddismo Zen Soto, afferma in un suo testo, Shoji- Vita e morte: “Per divenire Buddha c’è una via molto semplice: non costruire le varie forme del male, non avere il cuore che si attacca a vita e morte, approfon­disci la compassione verso tutti gli esseri viventi, rispetta chi sta sopra, senti compassione verso chi sta sotto, abbi un cuore che non detesta nessuna di tutte le cose, un cuore che non brama, senza pensieri reconditi, senza risentimenti: questo è ciò che chiamiamo Buddha”. E’ un comportamento puntuale e proiettato nel tempo: puntuale, perché si tratta di operare (pensare, parlare, agire) volta per volta, situazione per situazione. Qui non c’è possibilità di verifica: ridicolo è chi si autoproclama o accetta di farsi proclamare “illuminato”, specie se con questo intende che lui (o lei) è così giunto alla fine del compito; l’unica verifica possibile è quella dell’errore, della propria insufficienza, della devianza, seguita dalla riconversione, dal ritornare sulla Via da cui in quel momento si è deviato. Proiettato nel tempo perché è un lavoro che non ha fine così come non ha avuto inizio: temporalmente coincide con la durata del tempo, cioè è senza inizio né fine, perché un prima e un dopo il tempo non sono temporalmente definibili. Qui tutto si verifica, perché tutto va nella direzione di Buddha: questa è la sede della fede, se vogliamo usare questo termine. Qui tutto si rigenera e non c’è nulla di definitivo. I due aspetti, puntualità ed estensione non sono si escludono l’un l’altro: come due facce di un’unica medaglia: non se ne può vedere che una per volta, ma senza l’una l’altra non c’è.

Nel piccolo mondo del buddismo storicizzato, la violenza ha fatto non poche volte la sua comparsa: non credo sia questa la sede per fare un’analisi storica. Voglio solo notare una cosa, che può servire per evitare (o almeno rendere meno drammatici) futuri errori. Quanto più il buddismo (e direi ogni religione in genere) si lega a istituzioni politiche e sociali, tanto più si troverà, presto o tardi a dover usare il dettato religioso come un alibi per i propri comportamenti. Se il buddismo si lega a uno “stato” (quale che sia l’accezione in cui utilizziamo il termine) prima o poi quello stato lo condizionerà. E si troverà costretto a usare gli strumenti che ha a disposizione (la dottrina religiosa) per difendere lo stato cui si è legato. Così successe nel secolo scorso in Manciuria e in Cina quando i religiosi buddisti di ogni tradizione, Zen compreso, appoggiarono l’imperialismo militarista del governo giapponese di allora, manipolando in modo criminalmente strumentale certe affermazioni di certi testi buddisti, sfruttandone a fini irreligiosi l’ambiguità. Qui il termine ambiguità non ha alcun connotato negativo, sta solo a indicare la non univocità di significato di molte affermazioni religiose, che prendono senso se inserite in un contesto vivo.

Nel piccolissimo mondo del buddismo Zen nostrano, sembra che la violenza faccia a volte capolino nei rapporti interpersonali, e segnatamente in quel rapporto così vilipeso che si usa chiamare “maestro-discepolo”, o più generalmente “inferiore-superiore”. L’argomento non è trattabile neppure in forma succinta in questa sede, tanto delicato essendo e tanto profondo il fraintendimento che lo accompagna. Ma per il nostro tema va detto che ogni forma di sopraffazione, di dipendenza psicologica, di sfruttamento della posizione che si manifesti all’ombra del rapporto maestro-discepolo costituisce una forma di violenza basata su di un alibi privo di alcun fondamento buddhista. Qui va sottolineato il fatto che i rapporti umani sono sempre intrisi di connotazioni culturali, linguistiche, etniche (mi si passi il termine, scevro da ogni sfumatura razzista). Noi (buddisti zen) abbiamo imparato osservando rapporti umani che si sono sviluppati e hanno preso forma stabile nell’ambito della cultura cino-giapponese, utilizzando quel linguaggio, partendo da caratteristiche caratteriali proprie di quei popoli. In particolare, il rapporto inferiore/superiore, cardine della cultura confuciana, ha influenzato fin nel midollo la società giapponese, anche nei suoi aspetti religiosi, ivi comprese le modalità di rapporto all’interno dei monasteri buddisti zen, sia Rinzai che Soto. Attribuire tali modalità a matrici buddiste è un errore storico, culturale e religioso.

Abbiamo prima accennato al fatto che la responsabilità individuale consta nel buddismo nell’impegno di ciascuno a convertire se stesso, alias il mondo. Vediamo di chiarire meglio questo punto. La responsabilità individuale è la croce e la delizia di ogni buddhista. Forse non sarebbe improprio asserire che è croce e delizia di ogni essere umano, ma teniamoci al titolo su cui riflettiamo. Nel buddismo non si accenna al Creatore, non si nomina la Provvidenza, non si proietta una visione escatologica che promette una Salvezza Comune. La salvezza è faccenda di ognuno (di ogni uno): il senso di “universale” nel buddismo va compreso a partire da questo punto di partenza. “Universale” vuol dire che ogni essere è un universo, è l’universo, e che ognuno che si salva, salva l’universo intero: così Sakyamuni Buddha afferma che tutto diviene Buddha insieme a Lui. Vice versa, siccome il mondo di uno contiene tutto il mondo, così è per ciascuno: il compimento della mia salvezza implica di necessità la tua salvezza, perché così come tu sei un “tu” dentro il mio mondo, io sono per te un “tu” dentro il tuo mondo, del quale tu sei l’io. A partire da me (e altro punto di partenza non c’è) l’universalità si estrinseca in unicità e reciprocità: coprendo così tutto il tempo (tutti i tempi) e tutto lo spazio (tutti gli spazi).

Nella visione buddhista, la realtà e quello che noi in termini occidentali moderni chiamiamo responsabilità individuale coincidono. Secondo la legge della produzione reciprocamente condizionata di tutti i fenomeni, quello che sono, ora come sono, è il terminale di tutto ciò che concorre a far sì che sia così: devo assumermi la responsabilità di quello che sono. La parola ha qui il suo pieno significato etimologico: io sono nel modo in cui “rispondo” (sono respons-abile – capace di rispondere) alla realtà che mi costituisce e mi circonda. Questo è l’unico atteggiamento adulto che mi offre gli strumenti per uscire dall’impasse. Finché recrimino, cerco responsabilità “esterne”, me la prendo con la sorte, non mi ritroverò mai in quel punto che sintetizzerei con l’espressione “solo io sono io”. Questo è lo statuto costitutivo del buddhismo “Siate luce a voi stessi, prendete rifugio in voi stessi e non in altro” (Mahaparinibbanasuttanta, 2,33; Digha Nikaya, 16).

Per quanto riguarda il nostro tema, ciò equivale a dire “sono lo schiavo di me stesso”: questa è la croce che devo portare. Devo, in un certo senso, considerare come “mie scelte” anche le cose che mi capitano senza che io le abbia intenzionalmente e consapevolmente scelte. Se quindi, per fare un esempio, ricevo un ordine, nel momento in cui lo eseguo non è perché l’ho ricevuto, ma perché ho deciso di eseguirlo; e se vivo in una realtà in cui gli ordini si eseguono in quanto ordini, senza discriminare, sono io che accettando quei valori li faccio miei: non potrò dunque mai dire legittimamente “l’ho fatto perché me l’ha detto lui”. Il rovescio della medaglia è che chi dà ordini è individualmente responsabile degli ordini dati e degli effetti della loro esecuzione. Una delle cose più importanti in religione è non cercare mai alibi, men che meno negli insegnamenti religiosi stessi. Non c’è nulla dietro cui nascondersi, né istituzioni, né tonache, né dottrine: ognuno è responsabile di sé.   

 Ma se davvero realizzo che solo di me sono schiavo, che non c’è nulla e nessuno che mi tiene prigioniero, io posso anche essere il liberatore di me stesso. E questa è la delizia che quella croce nasconde: solo là dove verifico che tutte le catene che mi legano sono roba mia, c’è la possibilità di comprendere che solo io me ne posso liberare. Compresa la vera natura della legge di causa/effetto, del karma, del destino, posso vedere la natura delle catene che mi legano. E, vistala, comportarmi di conseguenza. Questo è ciò che in termini zen si chiama satori: assumersi la responsabilità della propria vita, vedere che volta per volta, momento per momento ho tutta la libertà che la situazione offre, e impegnarmi a comportarmi così per tutto il tempo della mia vita. Il parametro di questo comportamento per il buddismo zen è lo zazen, che consiste nel fare niente, nel solo stare seduti vigili e immoti. Fare niente è l’opzione possibile in qualsiasi situazione, il germe della libertà. Il seme della libertà è dato a tutti gratuitamente: citiamo ancora Dogen Zenji: “A chiunque sin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non passa attraverso il fare praticamente proprio zazen, quel principio non appare manifestato e se non si evidenzia nello zazen in realtà non lo si ha. (Bendowa – Il cammino religioso).

Se qui Dogen si riferisce specificatamente allo zazen, parametro della pratica religiosa, noi possiamo certo parafrasare come segue: a chiunque fin dalla nascita è dato con pienezza il principio della condizione in cui la persona vive il sé originale genuinamente, però, se non lo mette in atto in ogni comportamento, in ogni situazione della vita, quel principio non appare manifesto: e siccome la manifestazione non è altro dal principio che la informa, se non si evidenzia in realtà non sussiste. Ecco dove sta la responsabilità individuale.

Per quanto riguarda dunque il problema della violenza, si tratta di educarsi, con la pratica, con lo studio, con le frequentazioni, a discernere il comportamento adatto volta per volta. Io non posso a priori escludere che ciò possa voler dire, in un caso estremo, uccidere il tiranno, come cercò di fare Bonhofer ai tempi di Hitler. Sapendo però che uccidere è un atto violento, che comporterà conseguenze di cui mi devo far carico: se mi daranno l’ergastolo, se mi condanneranno a morte per questo, se altri soffriranno per il mio gesto, tutto questo ricadrà su di me e io devo essere pronto a pagare fino in fondo, senza recriminare: cercando là dove le conseguenze del mio gesto mi porteranno, la pratica e la testimonianza della Via.

Credo si possa dire, insomma, che il buddismo non ha una risposta al problema della violenza e della responsabilità individuale in presenza di quella: il buddismo non elabora teorie e non fornisce formule risolutorie: è piuttosto l’indicazione di un cammino, di un orientamento a cui sempre è possibile tornare tutte le volte che ci si accorge di aver deviato. Decidere come comportarsi di fronte alla violenza (sia essa dentro o fuori di me), questa è la mia responsabilità individuale volta per volta. Essere riuscito ieri non è garanzia che riuscirò domani: la vigilanza deve essere continua. La mia responsabilità individuale riposa però su una fede che la sostiene e la indirizza: da qualunque deviazione posso sempre tornare, perché qui dove sono, in un punto sperduto di un cammino infinito, è anche contemporaneamente il punto di inizio e la meta.  

 

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