Sono tornato alla terra. È lì che si torna, perché è da lì che veniamo. Quando non siamo niente, quando siamo solo pensieri, quando ancora siamo nel luogo non luogo… in quell’istante siamo nella terra.
Questa terra bruna e soffice, questa madre, non si sa dove sia.
Poi… basta un attimo… un seme volato al vento, gettato per caso, una mano intenta e consapevole, una scelta minuziosa e diligente, un gesto, un seme nella terra e via, si comincia.
Inizia la giostra, inizia la vita.
Il freddo della terra spaventa, la solitudine iniziale, il silenzio: poi arriva il resto.
Alle volte si presentano i lombrichi o qualche roditore con l’unico, ma naturale intento di mangiarci.
A volte il seme si ferma solo in superficie e un uccello vorace lo prende e lo porta per sempre con se’: la terra non ce la fa a proteggerlo…e, in un attimo, lui non c’è più.
Se la vita si attacca, però, il seme comincia a combattere. Apre il suolo, si allarga, affonda le radici, si muove.
Succede anche a noi. A volte veniamo al mondo per caso, a volte per scelta, a volte per amore.
Nei primi casi, quando si accorgono di noi, può arrivare il panico. Con i primi ripensamenti si realizza che quel gesto fatto, un po’ per caso, un po’ per voglia, un po’ per essere come gli altri, prevedeva la vita …e la vita è arrivata.
Che fare, allora? Rivelare agli altri il proprio segreto, prenderne la responsabilità, tacere tutto e mettere fine alla vita che, in fondo, ancora non c’è?
La terra da sola non può mettere fine a niente, può solo dare la vita. Le madri si.
Possono decidere se dare la vita o toglierla…un fardello che pesa non poco.
Se si pensa alla vita, si dovrebbe pensare che, quando comincia, comincia col cuore, non con il cervello. È lui a funzionare per primo. È il l cuore a battere, è il cuore che dice buongiorno alla vita.
Dovrebbe dirci tutto, questo. Dovrebbe dirci che la vita comincia da quel battito e in quel battito continua per sempre anche se, poi, i nostri giorni sono confusi dai rumori di fondo, dalle azioni quotidiane, dai doveri che coprono lentamente il nostro cuore e il suo scopo: amare.
Lo sperimentiamo nei primi istanti della nostra vita e durante tutta la nostra infanzia. In quel periodo ideale cerchiamo carezze, sorrisi, abbracci…solo amore.
Lo sappiamo fino a quando cominciano ad inculcare in noi la favola che il tempo è denaro, che non c’è da perder tempo, che c’è da fare e noi ci crediamo e ci lasciamo sovrastare da tutte le nostre angosce e preoccupazioni quotidiane.
Forse la colpa è di Pandora e del suo vaso con tutte le sue disgrazie.
Ma non doveva contenere anche la speranza? Dov’è finita questa essenza meravigliosa? Dov’ è andato questo motore che può cambiare le cose?
Sono tornato alla terra, perché la terra è la madre. Lo dicono gli alberi con le loro radici ancorate, che cercano un abbraccio profondo, lo dicono i semi che si accoccolano nel suo ventre e dimorano sicuri fino alla nascita, protetti.
Le madri sono così forti come la terra? A volte penso di si.
Altrimenti perché dar loro il dono della vita? Perchè incoronarle con questa immensa responsabilità se non fossero capaci di gestirla?
Loro spesso pensano di no, si sentono sovrastate. Si sentono responsabili in ogni fibra del loro essere dal primo giorno in cui sentono quel cuore cominciare a pulsare. Diventa un tutt’uno con il loro, non riescono a coglierne la differenza e gestire due cuori diventa un’impresa felice ma dura. Niente può essere più lo stesso. Niente sarà come prima.
La vita sarà in tutti quelli che si vedono e tutti quelli che la circondano diventano vita.Da rivedere!!!
Non tutte le madri sono uguali, ci sono quelle canguro, ghepardo, orsacchiotto, terrorizzate, ipocondriache, maniache, leggere.
Non tutte maneggiano quel battito allo stesso modo, non tutte riescono a tenerlo vivo fino in fondo.
E’ una questione che riguarda le loro vite, a volte facili, a volte complesse, a volte impossibili.
Eppure, anche nelle vite impossibili, anche a volte al di là di tutti i tentativi diretti e indiretti che si possano fare per far smettere al nostro nuovo cuore di battere, lui sopravvive a tutto e alla fine esce allo scoperto.
Io venni al mondo per scelta, ma di quella scelta credo si pentirono tutti presto o almeno quando cominciarono a litigare. Il mio arrivo doveva essere carico di felicità, purtroppo, però scoperchiò quel senso esistente di angoscia e di dolore. Tutto cominciò a scricchiolare.
Mio padre consegnò la mia nascita a mia madre e piano piano, solitudine dopo solitudine, lei cominciò ad andare in pezzi.
Non potevo capire allora ma sentire si. Il suo stomaco che si apriva, il vuoto dentro, l’assenza di felicità, le lacrime che arrivavano per le richieste d’aiuto disattese e le offese, il suo corpo che spesso tremava dalla paura di non farcela.
Non potevo capire, ma sentire si, allora a volte piangevo, mi svegliavo la notte. Questo, però, la rendeva solo ancora più vulnerabile.
Quella fragilità se la portò dentro per molti anni; alle volte sembrava davvero convinta di essere solo un vaso di vetro, trasparente e pronto a rompersi alla prima occasione. Alle volte anche io la vedevo così. Avevo il terrore che cadesse e, in un baleno, si frantumasse al suolo in mille pezzi e io, allora, sarei stato perso per sempre.
C’erano però altri momenti in cui mi sembrava forte, coraggiosa, immensa, l’avrei paragonata a Dio.
Un Dio che lotta contro l’uomo senza cuore, un Dio, che per qualche ragione a me sconosciuta, riesce ad amarlo.
L’uomo senza cuore non era mio padre. lui se n’era andato anni prima, dopo furibondi litigi durati anni. In quei momenti avrei voluto non essere nato, avrei pagato per essere da qualche altra parte, avrei voluto che lui andasse via. Quando se ne andò davvero sentii come un vuoto allargarsi dentro, non so se fosse la mancanza o la liberazione.
Non passò molto tempo prima che arrivasse l’uomo senza cuore, il suo corpo piccino, la sua faccia cattiva.
Avevo visto subito che nei suoi occhi si nascondeva qualcosa di oscuro, come quella luce che hanno i cattivi nei film o nei fumetti, ma non avevo detto niente. Del resto il parere di un bambino non interessava a nessuno in quella circostanza, non aveva nessuna importanza.
Mia madre l’aveva conosciuto ad una fiera, dove faceva l’ambulante; l’aveva invitata a ballare e lei, dopo anni di attenzioni mancate, era cascata nella rete del primo cavaliere senza macchia. Peccato che non fosse così gentile, in realtà… soprattutto con noi. Io e mia sorella speravamo che questa storia finisse presto, invece alla fine ci trasferimmo tutti insieme a vivere con lui.
La casa era piccola, avevamo una cucina con un vecchio divano, la camera da letto , la nostra camerina e il bagno. Ci tenne subito a precisare che dovevamo stare attenti a tutto, a non sporcare, a non rompere niente, a non far rumore e poi, questo concetto, lo ribadì sempre sia con le urla che con le botte. All’inizio cominciò con noi. Un segno sul muro, qualche risata di troppo, qualche urlo di gioia, tutto poteva essere l’inizio della fine. I primi tempi lo faceva soprattutto quando lei non c’era e guai a dirle cosa fosse successo, il terrore di quello che sarebbe potuto accadere incombeva su di noi.
Non so se lei fosse felice, forse all’inizio lo era. Alle volte, quando le cose andavano bene, la sentivo cantare: l’adoravo quando cantava, portava una ventata di normalità alla nostra casa che era cosi rara negli ultimi tempi.
Quando le vedevo gli occhi cerchiati e gonfi, invece, anche se cercava di sorridere, sapevo che aveva pianto. A volte lo faceva tutta la notte, perchè l’ oscurità nascondeva lo scendere delle lacrime, ma il volto rimaneva segnato e, nonostante il silenzio e la notte, sapevo che aveva pianto. Quelle lacrime erano una ferita nel mio piccolo cuore e costruivano barriere forti contro colui che gliele causava.
Anche i lividi erano difficili da nascondere. Anche se cercava di coprirsi quando lui glieli faceva, io ero sempre attento a notare il minimo spostamento dei suoi vestiti per cogliere il segno dei loro litigi. Non riuscivo a capire cosa ci avesse trovato in lui, così magro, occhi piccoli e cattivi, vita allo sbando. Forse La tenerezza dei primi giorni, l’essere stata l’oggetto delle sue attenzioni, non l’ho mai capito. Era finito tutto presto, però, e subito erano arrivati i litigi, le offese e piano piano anche le botte. La nostra vita era un terno a lotto, sempre ad attendere i suoi cambiamenti di umore .
Da quando l’avevo visto per la prima volta, l’avevo soprannominato l’uomo senza cuore. Lo vedevo come in un fumetto, magro, smilzo, viso bianco, barbetta, occhi cupi. Una volta avevo perfino sognato di averlo picchiato. In ospedale poi, finalmente, avevano confermato la mia tesi. “È un uomo senza cuore” aveva detto il tecnico delle radiografie ed io, sollevato, avevo finalmente capito perché si era comportato così.
Quella storia del cuore la ripetevo spesso. Tutte le volte che faceva qualcosa di terribile e che non riuscivo a spiegarmi mi dicevo: “L’ha nascosto da qualche parte, devi andare a cercarlo altrimenti lo rifarà ancora”.
Chi si comporta così non può avere un cuore, deve averlo perso per forza da qualche parte, o forse non l’ha mai avuto. Difficile vivere senza cuore, impossibile quella di chi ti sta intorno. Da rivedere!!!
Noi vivevamo come se camminassimo su una strada lastricata di vetri e, ad ogni passo falso, rischiavamo di tagliarci. A casa nostra il dolore era un compagno onnipresente. Era come una spada che si insinua dentro, profonda. Con la sua punta incideva il nostro corpo provocando nuove ferite e riaprendo vecchie cicatrici.
Il dolore arrivava improvviso, non visto, mai benvenuto. Insieme a lui conviva la paura che
riapriva gli occhi la notte, fermava il respiro, accelerava il cuore. Il dolore era terribile e misterioso perché non sapevo dove potesse condurmi.
Questi erano i miei giorni. Aspettare con ansia e paura il prossimo scatto d’ira, le prossime botte, i lividi, il prossimo salto dal trampolino dove mi trovavo a camminare.
Il dolore e la paura mi erano cresciuti dentro, si erano aggiunti agli anni sulle candeline del mio compleanno.
Di questo dolore non ne facevo parola con nessuno. A cosa sarebbe servito? Quello era il mondo in cui a tutti mancava un pezzo di qualcosa.
Alle mie maestre mancavano gli occhi, mi ero detto. Doveva essere così, non poteva essere altrimenti. Quelli che vedevo erano solo disegnati, altrimenti come avrebbero potuto non vedere?
Ebbi la conferma quando una volta mia sorella arrivò a scuola con l’orecchio viola, tumefatto, piegato. Lui gliel’aveva chiuso nella porta…per punizione.
Stavolta lo vedranno, mi dissi, stavolta noteranno qualcosa e lo diranno a qualcuno…. Niente. Gli occhi non funzionarono neanche stavolta, come avevano fatto tante volte con me.
I grandi non avevano occhi, orecchie, braccia, mi sembravano uno sciame d’api che mi passava accanto di fretta, senza mai accorgersi di me.
Eppure, anche le urla a casa nostra si facevano sentire. Ma al di là della parete c’erano i vicini senza orecchie…..cosa potevo pretendere io!
C’erano i miei amici, pochi, perché non mi lasciavano uscire spesso. Con loro ero io che non riuscivo a parlare. Dire di quel dolore per me era come staccare un pezzo di pelle da svegli, scavarsi il cuore. A quel punto la pelle, all’aria, brucia e attende.
Chi ascolta il dolore, spesso non merita questo canto misterioso. Ne ignora la potenza, il sacrificio di chi lo narra, dopo averlo subito insieme ai suoi lividi in ogni angolo del corpo. Spesso lo ascolta distratto non sapendo i segni che ha lasciato o lo giudica innocuo o passeggero, non accorgendosi dei suoi ritorni e delle sue lame affilate.
Spesso chi ascolta si tiene lontano, tanto non è affar suo. A volte ride del dolore. Ma ridere del dolore è come provocarlo. È come alzare la mano per impugnare la spada. Quella del dolore.
In tanti momenti avrei desiderato essere di gomma. Sarebbe stato meglio. Di gomma, per non sentire il disprezzo, il dolore delle botte, i brividi della paura. Ma di gomma non ero, e fatto di pelle, ossa e cuore soffrivo di quello che mi stava accadendo.
Sono tornato alla terra, non per scelta, non per nascondermi, perchè non ce l’ho fatta. Il mio cuore bambino, dava noia, fastidio. Fastidio le mie risate, la mia voglia di divertimento, di gioco. Il mio disordine che era ribaltare l’ordine inutile e falso della vita. Disturbava tutto e quindi valeva la pena picchiarmi, picchiarmi fino a farmi morire.
Quel giorno l’uomo senza cuore non riusciva a dormire. Era nervoso, come sempre, e i nostri giochi lo mandavano in bestia. Non ricordo esattamente perché, ma afferrò quella scopa e cominciò a picchiarmela dappertutto. Ricordo che avevo riso con mia sorella di una barzelletta scritta sul mio diario, poi non ricordo quasi niente. Quel giorno mi sentii come avevo immaginato mia madre. Ero un vaso di vetro che stava andando in frantumi. Piangevo, urlavo di smettere, mettevo le mani avanti per proteggermi dai quei colpi….ma niente. Lui ne sferrava ancora, non era solo senza cuore, era senza orecchi, senza occhi, era il mondo adulto ad essere così. L’unica che mi guardava e piangeva era mia sorella, ma anche lei era piena di lividi e prendeva calci e pugni in qua e in là quando faceva pausa con me.
Poi arrivò finalmente mia madre, l’unica che faceva eccezione. L’unica che provava a sentire, vedere, reagire, anche se spesso era sovrastata dalla paura.
Lei cercò di farlo smettere e si prese i suoi morsi, i suoi pugni, le offese di sempre. Poi fu il mio cuore ad andarsene ed io divenni come tutti gli adulti: senza occhi, senza mani, senza niente. Si dice, però, che quando il cuore smette di battere, il cervello per tre minuiti funzioni ancora. Fu così anche per me: in quegli istanti vidi l’uomo senza cuore, con le mani stanche per avermi picchiato fino ad uccidermi e le lacrime di mia madre, inerme, terrorizzata, fragile. Vidi la mia vita proiettata davanti e la mia morte attaccata al suo cuore per sempre, con la voglia di uccidere il mio assassino, con il corpo bloccato dalla paura e dall’incredulità e poi, improvvisamente non vidi più nulla.
Viene sempre mia madre in questa terra, dove ora riposo, versa sempre le sua lacrime come linfa per la mia vita, mi accarezza.
Quando la vedo ora, a volte non la riconosco perché è cambiata, ma va bene così.
Dopo la mia morte, mia madre si ruppe. Le tolsero tutto, l’accusarono a causa mia e gli adulti senza occhi, nè orecchi, nè mani cominciarono ad usare parole, gesti, accuse contro di lei. Piano piano, adesso i pezzi stanno tornando insieme, sta imparato a lottare per chi è rimasto, a schivare le botte, ad allontanarle perchè ha capito che la vita non deve passare da li.
Per tutto questo, però, abbiamo pagato un caro prezzo, troppo caro, troppo grande. Tutto questo, però, poteva essere evitato molto prima.
Quando ero a scuola avevo letto sul libro di religione che alcuni credono che ci tocchi anche una seconda vita. È bello immaginare che sia così. Io però nella mia seconda vita non voglio ritornare umano, non ho avuto una bella esperienza con questo genere che per me di umano non ha niente. Vorrei diventare una lucciola. Ne ho viste diverse da quando sono qui. Mi illuminano tante notti. Sono esseri piccoli, apparentemente indifesi eppure possono fare in sciame una grande luce. Illuminerei gli adulti, andrei a trovarli nelle loro case e per strada. Farei lume sui loro occhi, orecchi, braccia. Direi loro: non vedete cosa succede? E se lo vedete fermatelo, vi prego, cosi, se ci fosse stata quella luce forse non sarei tornato alla terra come nessuno ingiustamente e per mano di qualcun altro dovrebbe fare.
Maria